Di amori e sventure

C. alla fine è morta e io sono stata al suo funerale sapendo ben poco di lei. Voglio molto bene al suo papà che è arrivato con un mazzo di fiori in mano da posare sulla bara, mi ha rivolto uno sguardo dolce sulle scale prima di entrare e poi ha trafficato con le tasche alla ricerca di un telefono al quale aveva dimenticato di togliere la suoneria.

Il parroco ha continuato a ripetere “..in questa chiesa cattedrale”, quasi un noioso e turistico intercalare; io ero seduta abbastanza in fondo da poter guardare l’uniformità della cascata di Barbour tra le panche in legno e delle catene montuose di teste bianche. Tra queste, un elemento stonato, un giubbotto in pelle troppo largo e sdrucito, due occhi tristi che si guardavano intorno dispersi. Mi sono chiesta per tutto il tempo se quel ragazzo fosse alla ricerca di conoscenti arrivati in ritardo o se si muovesse di continuo per dissimulare una profonda tristezza individuale che in quel momento non riusciva a far emergere.

C. era timida, claudicante, aveva solo venticinque anni e troppe remore, troppi dolori, per riuscire ad andare incontro al mondo a braccia aperte e a testa alta. Ho provato a farla ridere più volte nei mesi in cui cercavo di farle un po’ di formazione al lavoro, ma nei suoi sorrisi si celava sempre una profonda difficoltà a lasciarsi andare.

Non ho pensato a lei per intere settimane, quando è stata costretta a lasciare il lavoro, forse mi concentravo di più sul dolore del suo papà. Ma oggi mentre guidavo verso il suo funerale, ho provato a ricordare le ultime volte in cui l’ho vista e mi è venuto in mente un caldissimo pomeriggio di giugno, quando l’ho incontrata vicino Piazza Duomo e mi ha descritto il fiore all’occhiello, preparato da lei, che suo padre avrebbe indossato ad una festa alla quale anch’io ero invitata. Oggi, poi, sono arrivata, ho parcheggiato e mi sono diretta proprio verso Piazza Duomo e in quella chiesa cattedrale, quando ho visto quel ragazzo in quel giubbotto di pelle over size, quando ho visto i suoi occhi lucidi a disagio, ho immaginato per C. un amore nascosto e spezzato, un amore che la rendeva felice, ma in maniera cauta e silenziosa. Com’era lei.

Last months in a blink

L’ambizione da controllare, il lavoro principale che ti manda in burnout e diventa il lavoro secondario, gli amici che abitano in altre città, gli addormentamenti sul divano davanti ad un film, il figlio, la famiglia, la casa, i convegni e i concerti, la psicoterapia, l’osteopatia, lo yoga, i libri sul kindle, il laptop nuovo leggero perché hai mal di schiena e il fisso con lo schermo grande perché ci vedi sempre meno bene, il reflusso gastroesofageo, la tosse cronica, le vacanze in montagna, le passeggiate nel verde, il poco tempo libero che non dedichi quasi più alla scrittura, il lavoro secondario che è quello dei tuoi sogni quindi meno remunerativo ma poi diventa il lavoro principale, la fiducia che riponi nella skin care routine e nelle birre con certi amici che sono biglietti aerei per il passato, che sono pomate per vecchie scottature e che, in modi che a te sono sconosciuti, ti fanno sentire riallineata con ciò che sei stata, ciò che sei e ciò che vorresti diventare. Ti senti cresciuta, invecchiata o come si dice. Ogni tanto fai qualche tentativo di autosabotaggio, ma lo riconosci e cerchi di bloccarti per tempo; ogni tanto ti accorgi di non riuscire a dedicare troppo tempo a cose che ti piacciono e allora ti impegni, ma la verità è che molte volte le cose che ti piacciono ti vengono incontro correndo a braccia aperte e a luglio esce il nuovo album dei Blur chediolibenedica e tu sei in auto sulla litoranea davanti ad un tramonto d’agosto e canti Barbaric urlando, lasciando che i pensieri belli, brutti, ossessivi, realizzati e non realizzati d’amore possano liberarsi fuori dal finestrino, puntare il mare e da lì correre liberi, lontani da te e in questo frammentarsi ti senti finalmente persona unitaria.

I have lost the feeling that I thought I’d never lose
Now where am I going?
At what cost, the feeling that I thought I’d never lose?
It is barbaric

Nel velluto

Cosa resta dei segreti custoditi per anni, dopo averli finalmente confessati?

Laura preme il piede sull’acceleratore, godendosi lo spettacolo della strada notturna che sembra un nastro di velluto che passa man mano sotto le gomme della sua auto. Cosa resta? Pensieri inaspettatamente leggeri, una canzone che risuona nell’abitacolo. Ha un testo bellissimo.

Cosa resta? Un senso di pacificazione mentre si tuffa in doccia, anche il getto d’acqua calda sembra velluto che le scorre sulla schiena. Poi va a letto chiedendosi a quali idee dedicarsi ora che alcune hanno preso forma in parole. Sempre alle stesse? Ce ne saranno di nuove? Seriamente, cosa resta dei segreti che ormai segreti non sono più?

Di tutta l’intricata faccenda che è la vita, Laura crede di aver capito solo una cosa: noi apparteniamo al mondo, i nostri pensieri e le nostre parole e le nostre fantasie sono nostre ma non solo, bisogna lasciarle andare, saper condividere, smettere di voler sembrare bravi e intelligenti e performanti e arguti a tutti i costi e, semplicemente, restituire al mondo ciò che siamo, ciò che siamo grazie a noi ma anche grazie al mondo. Poi a volte si soffre e a volte ci si sente circondati dal velluto.

Ed ecco cosa resta, ci resta sempre e solo ciò che abbiamo dato.

Dei miei racconti senza titoli e senza lettere

Non scrivo più.

No, non è vero, scrivo ancora, ma solo al tramonto.

In giornate piene di impegni e incastri, compio la magia di scrivere senza il bisogno di buttare giù parole su un foglio, reale o virtuale che sia. Scrivo nella mia testa, parola per parola, a volte riesco persino a rileggere.

Sono quindi in grado di scrivere mentre sono alla guida, sulla tangenziale inondata dal sole arancione del tramonto, o mentre sono ferma al semaforo

scrivo mentre osservo mio figlio giocare o quando, seduta al bar, mi raggiungono le chiacchiere degli altri

che sono spesso chiacchiere di nulla, chiacchiere volatili, chiacchiere che raccontano quotidianità diverse dalla mia

poi ho notato che mi piace scrivere nelle lunghe giornate che passo all’aria aperta perché – e forse è anche per questo che raramente mi ritrovo seduta a scrivere nella maniera in cui scrivono tutti gli umani – la vita mi è stata così dolce ultimamente da regalarmi tanto tempo nel verde

l’altro giorno ero su un grande terreno dove sembrava ci fosse poco quasi nulla e invece io lo so che ci sono migliaia di piccoli alberi che stanno crescendo e ho iniziato a riflettere sul fatto che il loro tempo, il tempo di quegli alberi, sarà qualcosa che andrà oltre me e allora ho iniziato a pensare

e ho iniziato a scrivere un romanzo per racconti che mi è sembrato bellissimo – una canzone per ogni racconto e ogni canzone che racconta la nascita, l’esplosione e il declino di un determinato periodo, di un determinato amore della vita; mi è sembrato così stupefacente perché l’unica chiusura che riuscissi a immaginare per raccontare questi giorni e l’amore del quale mi sento ora circondata non era una chiusura con suoni prodotti dall’uomo ma solo quel fischio che, su quel grande terreno, il vento l’altro giorno produceva attraversando alcuni tronchi cavi.

Non scrivo più e anzi scrivo ancora e le cose che vorrei raccontare a volte faticano ad esprimersi solo in parole, ma io so che in questa solitaria attività in cui sono autrice e lettrice si realizzano dei piccoli cortocircuiti grazie ai quali smetto di sentirmi solo una persona e inizio a percepirmi come parte di uno scenario più grande e quando respiro mi sembra di respirare all’unisono con le persone che mi amano e con i luoghi che mi accolgono e quando scrivo qualcosa mi sento contemporaneamente piccola ed enorme

sola e in profonda sintonia con gli altri

con i luoghi

con la natura che mi circonda

con la vita e l’amore che mi attraversano a volte in silenzio a volte con incredibile frastuono

How to disappear completely

In a little while | I’ll be gone | The moment’s already passed | Yeah, it’s gone | And I’m not here | This isn’t happening

Quella piccola libreria in centro. Viale Grassi di notte con la sua sfilza di semafori nascosti dai rami degli alberi. La fantasia di un amore mai concretizzatosi. Hail to the thief dei Radiohead. Lo yogurt bianco. L’idea che vivrai mille vite nelle quali avrai modo di provare tutte le opzioni non scelte in questa vita. I racconti di Carver. La zona sottocassa alle feste intasate di corpi. Gli abbracci della donna che più di tutte ti ha fatto battere il cuore. Le liste prima dei viaggi, prima dei giorni importanti, prima di una decisione.

Prima che la tua vita diventasse ciò che poi è diventata, frequentavi tantissimi luoghi concreti e astratti, luoghi confortanti e contemplativi, luoghi che erano anche emozioni, sensazioni, stati d’animo. Luoghi nei quali sentivi di poterti immergere per sparire completamente, sparire agli occhi degli altri e ritrovare te stessa. Quando faticavi a respirare, ti tuffavi in uno di quelli spazi solo per te e smettevi di essere in apnea.

Sparire completamente è diventato ora decisamente più difficile. Non sparisci mai e senti di esserti persa del tutto. Ma una sera metti le cuffie, chiudi gli occhi e, sì, stai per sparire completamente. Di nuovo.